mercoledì 22 maggio 2019

#3 - E. Mounier, Lettere sul dolore - LETTURE 1


Tempo fa mi è stato regalato un libro, un’antologia di lettere scritte da Emmanuel Mounier, filosofo ed intellettuale francese della prima metà del ‘900. A lui si deve la definizione di quella corrente di pensiero denominata personalismo che mette al centro della propria riflessione la persona umana vista nel suo valore singolare e unico, cosa che egli ha fatto in un momento storico in cui si facevano sempre più spazio, nello scenario del nostro mondo, le spinte utopistiche e devastanti delle ideologie di massa.
                L’antologia di lettere che ho letto ha come filo conduttore il tema del dolore, il mistero della sofferenza che è il grande muro contro cui la riflessione filosofica si infrange a causa della mancanza di parole. Cosa può fare infatti la ragione davanti alla sofferenza? Nulla, si arresta sbigottita e tace. Il poeta e lo scrittore invece riescono a dire qualcosa, qualcosa che però non spiega nulla ma che semplicemente fornisce un vestito verbale all’incredulità e allo sbigottimento che afferrano l’uomo sofferente. Ecco, Mounier in queste lettere non fa il filosofo, infatti non si sforza di fornire spiegazioni, ma vive il grande dolore della sua vita da uomo e ce lo racconta. 
                Ci sono due lettere che mi hanno colpito, non sono tra quelle in cui parla della malattia e della morte della figlia, non voglio mettere bocca su qualcosa di così abissale. Le lettere di cui parlo sono della primavera del 1943 e vengono indirizzate ai genitori, una al padre e l’altra alla madre. Esse parlano dell’importanza della verità e della confidenza nelle relazioni come quella tra genitori e figli. Alla madre che gli chiede perdono di aver provocato una spiegazione, un chiarimento, il figlio Emmanuel dice che certamente è legittimo volere un affetto espresso con felicità e spontaneità, con freschezza e comprensione, ma questo approccio troppo armonioso nelle relazioni non è cosa di questo mondo dove le spiegazioni, gli accorgimenti e i semi-fallimenti sono inevitabili. L’affetto spontaneo infatti spesso è accomodante,  chiude  un occhio e resta zitto per non rompere il clima di equilibrio. Questo rischia di creare quella che Mounier chiama una cortina impalpabile tra le persone, una sorta di pellicola che ti fa illudere di vivere in un rapporto autentico, ma che in realtà uccide le fibre stesse della vita. 
                Nella lettera al padre spiega meglio questo aspetto della necessità della confidenza e dice che periodicamente bisogna far saltare la barriera che si mette nella comunione tra le persone, tale barriera è costruita dai fatti della vita e dagli avvenimenti condivisi che solo apparentemente sembrano unire due persone. C’è infatti bisogno di una lava bruciante che possa fondere il flusso inerte delle esperienze quotidianamente condivise, questa lava è la verità. Verità e affetto possono collocarsi a molta distanza tra loro. All’affetto, dice Mounier, piace lasciarsi cullare da un chiacchiericcio fatto di parole ingannevoli; esso è pronto al compromesso fatto di silenzi che costantemente tacciono sempre le solite cose sulle quali si finisce a parlare solo con parole convenzionali. I silenzi non illuminati dalla vera confidenza fanno erigere alte barricate costruite tramite l’affetto troppo armonioso, l’accordo troppo stabile, l’ottimismo troppo conciliante che sono parzialmente frutto della menzogna.

                Quello che per Mounier è sublime, nella relazione tra amanti, o in quella tra genitori e figli, ma anche in quella tra fratelli o tra amici, non è l’amore felice che si alimenta di utopie e scenari idilliaci, di buone maniere e convenevoli, ma è il desiderio di volersi bene, la lotta per amarsi perché amare in questo mondo non è assolutamente facile e spontaneo, anzi richiede una crescita, una lotta che porta necessariamente con sé anche contusioni e ferite. Verità e confidenza in una relazione non corrispondono all’infantile spontaneismo che porta spesso a vomitare sull’altro solo e soltanto la propria bile nera, ma significa mostrare quello che si custodisce, ciò a cui si tiene veramente, ciò che preoccupa e addolora. Significa dire all’altro ciò che mi sta a cuore, senza la falsa retorica di quelle parole che sono interessate unicamente a nascondere e a tenermi chiuso dietro l’immagine illusoria che faticosamente ho costruito di me stesso. Senza una tale confidenza e un tale coraggio di verità ci si riduce ad essere semplici attori, teatranti costretti a recitare in ogni momento, senza nemmeno una pausa di intervallo tra un atto e l’altro. Mounier ci dice che la verità di una relazione autentica si gioca su questo piano, non è semplice e ci vuole coraggio… A noi la scelta!


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