Tempo fa mi è stato regalato un libro, un’antologia di lettere scritte da Emmanuel Mounier, filosofo ed intellettuale francese della prima metà del ‘900. A lui si deve la definizione di quella corrente di pensiero denominata personalismo che mette al centro della propria riflessione la persona umana vista nel suo valore singolare e unico, cosa che egli ha fatto in un momento storico in cui si facevano sempre più spazio, nello scenario del nostro mondo, le spinte utopistiche e devastanti delle ideologie di massa.
L’antologia di lettere che ho
letto ha come filo conduttore il tema del dolore, il mistero della sofferenza
che è il grande muro contro cui la riflessione filosofica si infrange a causa
della mancanza di parole. Cosa può fare infatti la ragione davanti alla
sofferenza? Nulla, si arresta sbigottita e tace. Il poeta e lo scrittore invece
riescono a dire qualcosa, qualcosa che però non spiega nulla ma che semplicemente
fornisce un vestito verbale all’incredulità e allo sbigottimento che afferrano
l’uomo sofferente. Ecco, Mounier in queste lettere non fa il filosofo, infatti
non si sforza di fornire spiegazioni, ma vive il grande dolore della sua vita
da uomo e ce lo racconta.
Ci sono due lettere che mi hanno
colpito, non sono tra quelle in cui parla della malattia e della morte della
figlia, non voglio mettere bocca su qualcosa di così abissale. Le lettere di
cui parlo sono della primavera del 1943 e vengono indirizzate ai genitori, una
al padre e l’altra alla madre. Esse parlano dell’importanza della verità e
della confidenza nelle relazioni come quella tra genitori e figli. Alla madre
che gli chiede perdono di aver provocato una spiegazione, un chiarimento, il
figlio Emmanuel dice che certamente è legittimo volere un affetto espresso con
felicità e spontaneità, con freschezza e comprensione, ma questo approccio troppo armonioso nelle
relazioni non è cosa di questo mondo dove le spiegazioni, gli accorgimenti e i
semi-fallimenti sono inevitabili. L’affetto spontaneo infatti spesso è accomodante, chiude un occhio e resta zitto per non rompere il clima di equilibrio. Questo rischia di creare quella che Mounier chiama una cortina impalpabile tra le persone,
una sorta di pellicola che ti fa illudere di vivere in un rapporto autentico, ma
che in realtà uccide le fibre stesse della vita.
Nella lettera al padre spiega
meglio questo aspetto della necessità della confidenza e dice che
periodicamente bisogna far saltare la barriera che si mette nella comunione tra
le persone, tale barriera è costruita dai fatti della vita e dagli avvenimenti condivisi che
solo apparentemente sembrano unire due persone. C’è infatti bisogno di una lava bruciante
che possa fondere il flusso inerte delle esperienze quotidianamente condivise,
questa lava è la verità. Verità e affetto possono collocarsi a molta
distanza tra loro. All’affetto, dice Mounier, piace lasciarsi cullare da un
chiacchiericcio fatto di parole ingannevoli; esso è pronto al compromesso fatto
di silenzi che costantemente tacciono sempre le solite cose sulle quali si finisce a parlare solo con parole convenzionali. I silenzi non illuminati dalla vera
confidenza fanno erigere alte barricate costruite tramite l’affetto troppo
armonioso, l’accordo troppo stabile, l’ottimismo troppo conciliante che sono
parzialmente frutto della menzogna.
Quello che per Mounier è
sublime, nella relazione tra amanti, o in quella tra genitori e figli, ma anche
in quella tra fratelli o tra amici, non è l’amore felice che si alimenta di
utopie e scenari idilliaci, di buone maniere e convenevoli, ma è il desiderio di volersi bene, la lotta per amarsi perché amare in questo
mondo non è assolutamente facile e spontaneo, anzi richiede una crescita, una lotta che porta necessariamente con sé anche contusioni e ferite. Verità
e confidenza in una relazione non corrispondono all’infantile spontaneismo che
porta spesso a vomitare sull’altro solo e soltanto la propria bile nera, ma significa
mostrare quello che si custodisce, ciò a cui si
tiene veramente, ciò che preoccupa e addolora. Significa dire all’altro ciò che mi sta a cuore, senza la
falsa retorica di quelle parole che sono interessate unicamente a nascondere e
a tenermi chiuso dietro l’immagine illusoria che faticosamente ho costruito di me stesso. Senza una tale confidenza e un tale coraggio di verità
ci si riduce ad essere semplici attori, teatranti costretti a recitare in ogni momento, senza nemmeno una pausa di intervallo tra un atto e l’altro. Mounier ci dice che la verità
di una relazione autentica si gioca su questo piano, non è semplice e ci vuole coraggio… A noi la scelta!
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