venerdì 31 maggio 2019

#4 - Immagini impresse



Poco più di un mese è passato da quando ho salutato la Tunisia, per me è stata la prima volta che ho messo piede nell’immenso continente africano. Non passa giorno che la mente non ritorna alle grandi dune del Sahara, quali dune? Ce ne sono di molti colori, le sfumature prendono le tonalità del grigio, del rosso e del giallo, immense distese di sabbia, pare che siano 9.000.000 km². Fatto sta che in questi giorni di studio, in cui la testa dovrebbe essere occupata a leggere e a fare collegamenti, a ripetere e a fissare nella memoria, mi capita spesso di ritornare nel deserto.
Non è vero che nel deserto non c’è acqua, bisogna cercarla; non è vero che nel deserto non c’è vita, bagarozzi, scorpioni e vipere a quanto pare in quei posti se la passano bene. Anzi, c’è di più, nel Sahara riesci persino ad incontrare delle persone che vivono stabilmente lì o che attraversano quelle immense distese con i dromedari o a bordo di una Toyota 4x4 come ho fatto io. 
Il deserto ti conquista per un motivo che non ha nulla a che vedere con le prove di resistenza fisica o cose del genere. Anzi se cerchi di fare il duro il deserto ti mette all’angolo e ti manda al tappeto senza troppi sforzi. Chi vive nel deserto non parla troppo, preferisce il silenzio, ha una vista attenta e l’udito raffinato; è gente che non mostra di avere alcun tipo di fretta perché è impegnata a confrontarsi continuamente con qualcosa di immensamente grande che non è l’enorme distesa di sabbia rovente, ma è il cielo. Si, proprio il cielo, perché il cielo è il costante interlocutore di chi si trova nel deserto, è la presenza più ingombrante, la cosa che non puoi fare a meno di osservare. Forse anche per questo è difficile vivere nel deserto, alcuni ci hanno passato una vita intera, altri quaranta anni o quaranta giorni, io dopo mezz’ora di camminata tra le dune ho dovuto riprendere la 4x4. 


mercoledì 22 maggio 2019

#3 - E. Mounier, Lettere sul dolore - LETTURE 1


Tempo fa mi è stato regalato un libro, un’antologia di lettere scritte da Emmanuel Mounier, filosofo ed intellettuale francese della prima metà del ‘900. A lui si deve la definizione di quella corrente di pensiero denominata personalismo che mette al centro della propria riflessione la persona umana vista nel suo valore singolare e unico, cosa che egli ha fatto in un momento storico in cui si facevano sempre più spazio, nello scenario del nostro mondo, le spinte utopistiche e devastanti delle ideologie di massa.
                L’antologia di lettere che ho letto ha come filo conduttore il tema del dolore, il mistero della sofferenza che è il grande muro contro cui la riflessione filosofica si infrange a causa della mancanza di parole. Cosa può fare infatti la ragione davanti alla sofferenza? Nulla, si arresta sbigottita e tace. Il poeta e lo scrittore invece riescono a dire qualcosa, qualcosa che però non spiega nulla ma che semplicemente fornisce un vestito verbale all’incredulità e allo sbigottimento che afferrano l’uomo sofferente. Ecco, Mounier in queste lettere non fa il filosofo, infatti non si sforza di fornire spiegazioni, ma vive il grande dolore della sua vita da uomo e ce lo racconta. 
                Ci sono due lettere che mi hanno colpito, non sono tra quelle in cui parla della malattia e della morte della figlia, non voglio mettere bocca su qualcosa di così abissale. Le lettere di cui parlo sono della primavera del 1943 e vengono indirizzate ai genitori, una al padre e l’altra alla madre. Esse parlano dell’importanza della verità e della confidenza nelle relazioni come quella tra genitori e figli. Alla madre che gli chiede perdono di aver provocato una spiegazione, un chiarimento, il figlio Emmanuel dice che certamente è legittimo volere un affetto espresso con felicità e spontaneità, con freschezza e comprensione, ma questo approccio troppo armonioso nelle relazioni non è cosa di questo mondo dove le spiegazioni, gli accorgimenti e i semi-fallimenti sono inevitabili. L’affetto spontaneo infatti spesso è accomodante,  chiude  un occhio e resta zitto per non rompere il clima di equilibrio. Questo rischia di creare quella che Mounier chiama una cortina impalpabile tra le persone, una sorta di pellicola che ti fa illudere di vivere in un rapporto autentico, ma che in realtà uccide le fibre stesse della vita. 
                Nella lettera al padre spiega meglio questo aspetto della necessità della confidenza e dice che periodicamente bisogna far saltare la barriera che si mette nella comunione tra le persone, tale barriera è costruita dai fatti della vita e dagli avvenimenti condivisi che solo apparentemente sembrano unire due persone. C’è infatti bisogno di una lava bruciante che possa fondere il flusso inerte delle esperienze quotidianamente condivise, questa lava è la verità. Verità e affetto possono collocarsi a molta distanza tra loro. All’affetto, dice Mounier, piace lasciarsi cullare da un chiacchiericcio fatto di parole ingannevoli; esso è pronto al compromesso fatto di silenzi che costantemente tacciono sempre le solite cose sulle quali si finisce a parlare solo con parole convenzionali. I silenzi non illuminati dalla vera confidenza fanno erigere alte barricate costruite tramite l’affetto troppo armonioso, l’accordo troppo stabile, l’ottimismo troppo conciliante che sono parzialmente frutto della menzogna.

                Quello che per Mounier è sublime, nella relazione tra amanti, o in quella tra genitori e figli, ma anche in quella tra fratelli o tra amici, non è l’amore felice che si alimenta di utopie e scenari idilliaci, di buone maniere e convenevoli, ma è il desiderio di volersi bene, la lotta per amarsi perché amare in questo mondo non è assolutamente facile e spontaneo, anzi richiede una crescita, una lotta che porta necessariamente con sé anche contusioni e ferite. Verità e confidenza in una relazione non corrispondono all’infantile spontaneismo che porta spesso a vomitare sull’altro solo e soltanto la propria bile nera, ma significa mostrare quello che si custodisce, ciò a cui si tiene veramente, ciò che preoccupa e addolora. Significa dire all’altro ciò che mi sta a cuore, senza la falsa retorica di quelle parole che sono interessate unicamente a nascondere e a tenermi chiuso dietro l’immagine illusoria che faticosamente ho costruito di me stesso. Senza una tale confidenza e un tale coraggio di verità ci si riduce ad essere semplici attori, teatranti costretti a recitare in ogni momento, senza nemmeno una pausa di intervallo tra un atto e l’altro. Mounier ci dice che la verità di una relazione autentica si gioca su questo piano, non è semplice e ci vuole coraggio… A noi la scelta!


giovedì 16 maggio 2019

#2 - Il fuggiasco, il milanese efficiente e il pellegrino -


                La partenza e la destinazione sono gli estremi di un viaggio, lo spostamento di qualcosa è sempre provocato da alcune cause che possono stare sia davanti che dietro, nel senso che si trovano sia all’origine che alla fine. Per spiegare questo il pensiero degli antichi ci aiuta enormemente, quel genio dell’umanità che è Aristotele aveva infatti individuato quattro tipi di cause, e tra queste include anche la causa finale, quella che muove da davanti, come fa una calamita, che attrae a se un pezzo di ferro, lo sposta senza spingerlo da dietro. Questo comporta un radicale stravolgimento di mentalità, provare ad osservare le cose e le persone dalla prospettiva del loro fine, dal compimento che devono realizzare, aiuta ad avere un orizzonte più ampio è come se applicassimo ai nostri occhiali una sorta di grandangolo.  
                Spesso ci muoviamo come mosche dentro un bicchiere di vetro capovolto, giriamo ronzando, sbattiamo da una parte all’altra in maniera incomprensibile perché si dimentica o il punto di partenza o la meta. Chi non ha presente la meta è il fuggiasco, quello che scappa e si muove perché qualcosa da dietro gli fa pressione, il suo fine è fuggire, l’unica cosa importante per lui è seminare gli inseguitori e questo basta. C’è poi un altro personaggio, quello che non guarda nulla e nessuno, ma ha in testa solo il suo obiettivo da raggiungere ad ogni costo. Costui è l’infantile, l’uomo fermo all’adolescenza che non pensa ad altro se non al perseguimento dei propri scopi consistenti quasi sempre nel soddisfacimento dei propri bisogni. L’uomo efficiente, che si fa da solo, che raggiunge i propri obiettivi guarda avanti, ma solo fino alla punta dei propri piedi. Per questo motivo il nostro mondo, efficiente, tecnologico e funzionale è in fondo un mondo ancora adolescente, giovane e a misura di giovani, alla fine è un mondo fermo anche se dà l’impressione di muoversi velocemente. 
                Accanto al fuggiasco e all’uomo efficiente che raggiunge tutti i suoi obiettivi c’è un altro personaggio che ha perso lo smalto della prima ora. Lui si mette in cammino caricandosi nello zaino le sue cose, il suo bagaglio di esperienze, alcune di queste gli saranno indispensabili per affrontare la traversata, altre invece sono inutili e dovrà avere il coraggio di lasciarle sulla strada per rendere più leggero lo zaino. Non può fare il fuggitivo perché ne è impedito dallo zaino che porta sulle spalle e non può nemmeno mostrare il suo bel curriculum di obiettivi messi a segno perché il suo obiettivo non è raggiungibile nel breve termine. Questo personaggio potremmo paragonarlo ad un pellegrino che non deve essere necessariamente il mitico pellegrino medievale vestito con un rude sacco grigio e munito solamente di bastone, bisaccia e borraccia; potrebbe essere anche un uomo dei giorni nostri con le salomon ai piedi e lo zaino della Quechua sulle spalle. Quello che è proprio del pellegrino di ogni epoca storica non è tanto l’abbigliamento ma credo che sia prima di tutto la consapevolezza di quello che è, di chi egli sia e quindi di tutto quello che dal passato lo determina nel bene o nel male. Egli però non si ferma a una mera constatazione del dato di fatto della sua vita, ma vede una meta, un posto da raggiungere, un orizzonte più grande che da davanti lo attira facendolo mettere in moto e per questo motivo si mette in cammino. C'è però un mistero grande dietro il pellegrino dei nostri giorni ed è questo: per quale caspita di motivo decide di usare unicamente le sue gambe e non utilizza invece quegli efficientissimi mezzi che l'ingegneria meccanica gli ha messo a disposizione?

venerdì 10 maggio 2019

#1 - L'evasore eterno -


Il grande vantaggio che internet offre è quello di consentire a tutti, anche a quelli che hanno timore di prendere l’aereo, di viaggiare. Oggi infatti se si parla di navigazione si pensa prima di tutto ai meandri della rete cibernetica piuttosto che alla bonaccia del vento che gonfia le vele di un veliero nel mare. Spostarsi altrove o viaggiare ci piace veramente un sacco, forse, andando a scavare, qualche scienziato in gamba potrebbe persino trovare il gene touring-club nel nostro dna. Questo fatto che ci appartiene fino al midollo delle ossa lo possiamo verificare non solo osservando la nostra personale esperienza ma anche andando a guardare quali sono le storie che maggiormente ci raccontiamo. Sono millenni ad esempio che ascoltiamo le avventure di Ulisse e degli Argonauti, di Enea e dei Greci in rotta verso Troia, tutte storie di viaggi che si sono arricchite nei secoli di tanti altri racconti come quello di Dante, di Chaucher, di Marco Polo fino ad arrivare a Chatwin che ci parla di un viaggio in Patagonia e Pirsig che racconta la traversata dal Minnesota alla California fatta a cavallo di una moto insieme a suo figlio. 
Pensando a tutto questo saremmo portati a considerare quanto grande sia l’uomo e il suo desiderio di ricerca che lo spinge a inoltrarsi fino ai confini del mondo, oltre le colonne d’Ercole anzi fino agli oscuri limiti dello spazio. Io però ritengo invece che ci sia anche dell’altro, credo che tutta questa storia del forte desiderio di conoscere e scoprire nuovi orizzonti sia in realtà una spiegazione infiocchettata che diamo a noi stessi per dirci che in fondo non siamo poi così male. Ora la realtà è che ogni storia per essere vera e non solo bella, ha bisogno anche di un cattivo, di quel lato oscuro e misterioso che la trasforma in un’avventura.
 Il desiderio di andare via e di mettere la bandiera su terre sconosciute viene secondo me dall’impulso dell’evasore che ci spinge a scappare e ad allontanarci non da un luogo ma da chi condivide la vita con noi, ossia dalle persone che abbiamo accanto. Ma perché? Perché le persone vicine ci sono terribilmente fastidiose, sono ingombranti, tanto ingombranti che inevitabilmente mettono a soqquadro la nostra stanza ordinata.  Possiamo pure considerare chi ci sta accanto come un oggetto strambo, vedere la nonna come una mummia da museo o rappresentarci lo zio come l’uomo di Neanderthal. Ma tutti costoro che vorremmo fossero semplici e innocui pupazzi da osservare come al teatro delle marionette sono in realtà vivi e liberi, non se ne stanno fermi e buoni, ma prendono iniziativa, invadono il nostro territorio e ci costringono ad ascoltare il suono delle loro trombe che chiamano a raccolta le truppe per sferrare contro di noi il loro attacco.  Davanti a noi si presentano due alternative: o accettare la sfida o darcela a gambe, scappare, andare via. La vita di chi ci sta accanto è impegnativa perché è vitale, nel senso che è viva, imprevedibile, ma anche nel senso che si può arrivare a pensare che chi ci sta accanto potrebbe persino essere in grado di occuparsi di noi e questo è proprio difficile digerirlo! 


martedì 7 maggio 2019

#0 - Lazzaro, qui, fuori! -




Dopo un momento, quando ho reclinato il capo
e tutto il mondo si capovolse e si raddrizzò,
e giunsi dove la vecchia strada brillava bianca,
camminai per le vie e udii ciò che tutti gli uomini dicevano,
foreste di lingue, come foglie d'autunno non ancora cadute,
non spregevoli ma strane e sommesse;
vecchi enigmi e nuove credenze, non a dispetto
ma dolcemente, come  quando gli uomini ridono dei morti.

I saggi hanno centinaia di mappe da offrire,
come un albero tracciano i loro rampicanti cosmi,
frullano la ragione in molti modi, un setaccio
che trattiene la sabbia e libera l'oro:
e tutte queste cose sono meno che polvere per me
perché il mio nome è Lazzaro e sono vivo.  

G.K.Chesterton, The Convert

Con questi versi inizia l'avventura di questo blog che vuole essere come un cassetto della mia scrivania in cui sono riposte molte cose inutili da custodire. Raccolgo qui i fatti, le avventure, i pensieri e le riflessioni di Lazzaro che dopo l'uscita dalla caverna continua ad aggirarsi per il mondo. Gli avevano detto che comunque sarebbe nuovamente morto, egli incurante di tale particolare continua a percorrere le sue strade, lasciando che il tempo passi senza troppe e inutili preoccupazioni. Te lo puoi trovare in fila alla posta o tra i manifestanti in rivolta con i gilet gialli, a lavoro con gli operai delle fabbriche di mattoni di Tozeur o seduto in riva al mare mentre beve birra in buona compagnia. Lo trovi anche a casa, sul divano, mentre guarda la tv nel salotto invaso dai giocattoli dei figli o in mezzo ai rumori dei clacson nel traffico cittadino del pomeriggio inoltrato. Se hai l'occhio scaltro Lazzaro lo puoi scovare ovunque, in mezzo al carnaio metropolitano di una qualsiasi Bombay abitata da milioni di uomini come anche nel solitario rifugio di un anonimo eremita, perché Lazzaro è l'uomo che continua a voler vivere.


# 12 - Artisti per la vita

  La ricerca della voce personale che sia in grado di comunicare e di esprimersi autenticamente è un compito irrinunciabile per l’uomo e cre...